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sabato 21 aprile 2012

Capitolo I


Il salone del piano terra della SME era stracolmo di gente.
Oltre ai dipendenti della società, vi erano convenuti lavoratori
e sindacalisti esterni all’azienda e l’aria si era fatta
pesante, non solo per le oltre trecento persone che vi si
erano riunite ma anche perché i motivi dell’incontro erano
gravi. Quel 22 gennaio del ‘93 era un venerdì.
Il salone veniva normalmente utilizzato per le cerimonie
ufficiali, come ad esempio quella, tradizionale e recente, di
auguri natalizi. Dava sul cortile interno del moderno palazzo
del Centro Direzionale dove, loro malgrado, si erano
dovuti trasferire i dipendenti della Società nel maggio
1990, abbandonando le comodità della sede storica di via
Bracco. Ancora per molto tempo fra di essi l’argomento
rimase decisamente tabù.
Al microfono si erano succeduti diversi capi sindacali e fra
questi l’intervento di uno in particolare era stato accolto da
grande attenzione. Il tipo era piccolo e spelacchiato, i suoi
occhialini tondi e lo sguardo astuto gli davano l’aria da
intellettuale ed anche dalla voce sgradevole ma pacata si
capiva che aveva autorità. Si parlava della decisione della
Capogruppo IRI di scindere la SME in blocchi e di venderla
al privato. La SME rappresentava l’ultimo grande
Gruppo presente al Mezzogiorno e la decisione dell’IRI
aveva avuto tutta l’aria di un ritiro dello Stato dal Sud,
dove nel bene e nel male questo aveva avuto un ruolo di
sostegno notevole. Lo spettro della scomparsa di migliaia
di posti di lavoro si profilava con sempre maggior chiarezza
e un misto di movimenti interiori ed esteriori si sviluppava
in ciascuno di noi con disarmonia. Anche i movimenti
collettivi erano convulsi e a tratti si aveva come l’impressione
che stesse per scoppiare una rissa. L’apice si era
giunto quando, poco prima del piccoletto, aveva preso la
parola un sindacalista alto, grosso e baffuto che incitava
alla mobilitazione ma aveva dovuto desistere quando si era
accorto che il primo ad essere travolto sarebbe stato proprio
lui.
Il piccoletto, invece, che poi identificai meglio come il
Segretario della Camera del Lavoro di Napoli, invitò alla
ponderazione ed alla necessità di un’azione concordata con
il sindacato nazionale.
Il rispettoso silenzio con cui furono accolte le sue parole
non indicava però l’intenzione di seguire il suo consiglio.
L’atmosfera era pesante anche per le numerose sigarette
accese e il fumo che, come una nuvola, occupava ormai la
parte superiore della sala. Forse per questo molti
preferivano stare accovacciati o distesi per terra. Inoltre la
passività della maggior parte dell’uditorio ed il lento
vagare per il fondo della sala fra tanti volti conosciuti ed
altri meno, appartenenti questi ai colleghi della Cirio, mi
aveva fatto ricordare i tempi dell’occupazione studentesca,
quando al mio completo disinteresse per le questioni
politiche, si accompagnava una certa curiosità di conoscere
persone nuove, approfittando della ridotta attività scolastica.
Il giorno dopo ero a letto con la febbre alta.
Evidentemente oltre al fumo, nell’aria del salone doveva
esserci un morbo in agguato e di quelli potenti perché la
febbre non mi avrebbe abbandonato per tutta la settimana
successiva.
Il progetto di cui si discuteva la sera di quel venerdì si realizz
ò poi il lunedì successivo.

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