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sabato 21 aprile 2012

Capitolo II


Il Direttore Generale era un giovane professionista con una
brillante carriera alle spalle. Da quando, giovanissimo, era
entrato alla SME sotto l’ala dell’allora potente prof. Sicca,
aveva bruciato le tappe. Dopo un master in America aveva
scalato rapidamente tutti i livelli impiegatizi ed anche dopo
il declino, ma sarebbe meglio parlare di siluramento di
Sicca, era diventato prima dirigente e poi direttore della
Programmazione Strategica e del Controllo di gestione,
brillando di luce propria. Di grande intuito e rapida decisione,
ciò che veniva riconosciuto anche dai suoi non pochi
detrattori, aveva anche un’ottima “capacità di rapporti
interpersonali”, come si dice in gergo aziendale quando
uno è socievole, ma anche un carattere molto incostante.
Dovette arrabbiarsi molto il giovane manager quando alla
porta dell’ufficio quella mattina gli fecero capire che lui
non poteva entrare e che non era il caso di insistere. Inutili,
d’altra parte, si erano rivelati i tentativi di far forzare il
blocco dalla polizia per la presenza all’interno del palazzo
non solo “dei lavoratori riuniti in assemblea permanente”
ma anche di alcuni politici che non potevano essere spostati
con la forza come un qualsiasi altro mortale. Qualche
altro dirigente che, particolarmente zelante, si era già recato
in ufficio era stato gentilmente invitato ad abbandonare
il palazzo. Un mio collega mi chiamò a casa con voce eccitata
per questo rovesciamento di ruoli mentre proseguiva
il corteo all’interno dell’edificio: dal tono si capiva che
riteneva del tutto intempestivo, se non inopportuno, mancare
in questo momento.
Quando tornai in ufficio, nella “assemblea permanente”
anche lo sguardo di altri colleghi manteneva una velata
espressione di rimprovero. Non ero l’unico, infatti, che
era ammalato nella circostanza e, in alcuni casi, la coincidenza
era quantomeno sospetta. Il sospetto nei miei confronti
era per di più alimentato da una mia domanda preoccupata
sulla spedizione del certificato medico, che significava
non rinunciare, al pari degli altri, allo stipendio per i
giorni della mia malattia. Ma io che ne sapevo? Era la
prima “occupazione” che facevo ...
A questo proposito c’è da dire che il vocabolo era tabù
anche fra di noi perché definiva una situazione illegale,
mentre veniva utilizzato quello, già indicato, di “assemblea
permanente”.
L’atmosfera aveva già perso i toni accesi che dovevano
esserci stati nei giorni precedenti e l’unico segnale “di
guerra” era costituito dalla presenza di un tabellone, peraltro
molto ben fatto dall’ottimo Ugo, con i nomi degli uomini
(le donne erano cavallerescamente escluse) che avrebbero
dovuto fare i turni a partire da quella notte. Per il resto
il salone si presentava pieno di figure rilassate. Molti
leggevano il giornale, altri giocavano a carte, altri ancora
chiacchieravano un po’ scocciati. Il Quartier Generale,
dove invece ferveva l’attività, era al piano di sopra. Lì si
era riunita la “rappresentanza” (sindacale, ma chiamata
sempre solo con il primo termine) che aveva preso in
pugno il comando della situazione e discuteva, in modo
spesso animato, il da farsi. Attorno ad essa orbitava un
insieme di persone, un po’ per darsi da fare, un po’ per
procurarsi ciò che in una situazione del genere diventa
importante come il pane: le informazioni. Anche perché
proprio di pane si trattava: intanto lo stipendio non si percepiva
e poi veniva messo in discussione il proprio futuro
lavorativo. Ma tornando al cartello con i turni per la notte
non mi ero accorto ad un primo sguardo che era deserto
proprio il turno di quella stessa notte. Sentii, a tal
to, un collega che si giustificava dicendo che non poteva
inserirsi perché aveva problemi - seri - alla schiena ed un
altro che, con aria di grande rispetto e circospezione, lo
ammetteva.
“Ecco, mi dissi, si presenta la possibilità di entrare subito
“nel vivo” e, dopo aver chiamato casa, mi proposi di
restare io per quella notte, con l’intento di spingere anche
altri a fare lo stesso. E così fu: si unirono altri, anche se con
poco entusiasmo. In quella occasione cercammo di accorciare
la notte giocando a scopone scientifico, con la televisione
accesa.
Ebbi così modo di scoprire l’abilità di Nando, teorico del
gioco e abilissimo utilizzatore del Lotus, foglio elettronico
per personal computer. Nando è un ragioniere che alla
SME si occupava dei rapporti con le banche. Di media
statura, fisico asciutto, capelli scuri, sguardo intelligente e
baffetti è sempre elegante e si tiene in forma salendo i
quattro piani di scale che portano al suo ufficio. Manovra
le carte con accuratezza e rispetto e aspetta il momento
buono per piazzare il colpo a sorpresa che puntualmente
sottolinea con la sua risata sempre pronta. Con Silvia
forma una delle coppie di colleghi che si sono sposati alla
SME. Sono felicemente sposati e genitori di due figli. Mi
hanno raccontato di quando sposini e senza soldi sono partiti
per il viaggio di nozze, in Cinquecento.
Non li ho mai visti litigare.
Lui la chiama “collega Perrotta”. Lei è segretaria di
direzione. Lo è stata per molti anni del dott. Vanoli, allora
Direttore Generale, ed ora lo è stata anche dell’ing.
Maresca, un ingegnere meccanico che dal controllo degli
investimenti è passato ad occuparsi sempre più di
Amministrazione e Finanza.
La partita a carte finì e poi un’altra e poi un’altra e
occhi mi si chiudevano anche perché ho l’abitudine di
alzarmi presto la mattina. Resistetti un po’ per non scontentare
i miei compagni, ma questi se ne accorsero e mi
lasciarono andare: “non c’è problema”. C’era l’accordo di
dormire tutti, alcuni al piano terra, arrivati ad una certa ora,
lasciando sempre qualcuno in portineria. Nando, poi, che
non dormiva mai, mi consigliò di mettermi al secondo
piano dove c’era il miglior divano, quello del salottino
“azzurro”. Io mi allontanai, ringraziando, ma facendo
capire che sarei andato al salotto del primo piano per un
paio d’ore anche perché sicuramente c’era qualcuno più
alto di me che avrebbe potuto sfruttare meglio il più lungo
divano disponibile. Il tentativo di addormentarmi, durato
un’ora circa, alla fine naufragò perciò decisi di tornare al
piano terra in portineria dove c’erano, come sempre ci
sono, dei giornali da leggere. E così feci. Il sonno ritornò
ma erano già le due e decisi di non risalire, anche perché
ormai sarebbe stato il caso di stare “in guardia”, perché gli
altri dormivano, tranne, forse, proprio Nando.
Mi ricordo quando al corso allievi ufficiali ci parlarono di
come avremmo dovuto fare la guardia. Ci spiegarono che
in quel momento quella zona della caserma o dell’accampamento
era affidata esclusivamente alla nostra responsabilit
à e che non dovevamo fidarci assolutamente di nessuno.
Avremmo dovuto sparare a chiunque avesse invaso
la zona di sicurezza senza rispondere all’”altolà chi va là”.
Avremmo dovuto sparare anche su chi ci sembrava di
riconoscere se non avesse obbedito all’intimazione. La
lunga aneddotica che si accompagna a questo rituale e alle
prime guardie rendono effettivamente particolarmente
all’erta chi la esegue. Almeno, così è successo a me. Si raccontava
di un capitano, temutissimo in caserma, che era
riuscito a prendere alle spalle una sentinella
e della conseguente pesante punizione (“consegna di rigore)
”che era seguita.
Ma si raccontava pure di un soldato particolarmente sveglio
che aveva messo il fucile sotto il naso ad uno che aveva
scavalcato il muro della caserma per essere rientrato troppo
tardi dalla libera uscita e di un altro che c’era morto.
Certo, adesso, questa guardia aveva l’aria di essere molto
più all’acqua di rose. Non si trattava di stare in piedi, non
c’erano armi di mezzo ed era molto facile richiamare l’attenzione
dei compagni. Qualcuno sosteneva che un attacco
notturno da parte delle forze dell’ordine era estremamente
improbabile. Qualcun altro riteneva che qualsiasi attacco
era improbabile per la situazione, già descritta, di polveriera,
in cui versava Napoli. Ma c’era anche chi diceva che
invece prima o poi avrebbero dovuto cacciarci. Per quanto
mi riguarda, come si vede, cercavo di formarmi un’opinione
personale attraverso le idee degli altri, non avendo,
come molti dei colleghi, alcuna esperienza in “occupazione.
”All’ennesimo articolo di giornale che non avrei mai letto in
nessun altra condizione, mentre ripercorrevo con la mente
i racconti che mi avevano fatto i colleghi al mio ritorno
quella mattina, mi venne l’idea di mandare una lettera
infuocata di un certo avvocato, facente parte del Consiglio
di Amministrazione della SME, che mostrava di voler
seguire una linea dura con noi nonostante avesse una
posizione poco chiara e molto rapidamente preparai la lettera
da mandargli.
Poi, visto che avevo in mano la penna, provai ad abbozzare
un documento di ricucitura con i colleghi della Cirio.
Ciò che indeboliva molto la nostra posizione, infatti, era il
fatto che gli impiegati della Cirio, Bertolli, De Rica, che
pure avevano iniziato ad opporsi a quest’idea della
sione, essendosi trovati con noi a fine dicembre nel
Cinema Teatro Corso nella riunione con i sindacati e così
il venerdì precedente nel salone della SME, adesso, invece,
stavano recedendo dal fronte della battaglia. Essi, a loro
volta, sostenevano che non potevano bloccare l’attività del
settore Latte e quindi non sarebbero comunque potuti
essere compatti al loro interno.
Il giorno dopo, in una riunione come ve ne sarebbero state
molte altre, in cui i rappresentanti sindacali avrebbero dato
un’”informativa sindacale”, appunto, la Perrino, esponente
di spicco della nostra RSA (rappresentanza sindacale
aziendale), avrebbe preso una di quelle due lettere, quella
all’avvocato, per additarla ad esempio di come si doveva
collaborare alla lotta e sottintendendo che altri tipi di “consigli
” o critiche era meglio tenerli per se’. Bisognava partecipare
attivamente.
La lettera faceva più o meno così: “La circostanza della
Sua appartenenza al Consiglio di amministrazione della
SME è incompatibile con l’incarico di consulente che Lei
svolge per la Cirio, Bertolli, De Rica. La invitiamo pertanto
a dimettersi dal Consiglio di Amministrazione della
SME per il buon nome della Società”.
Qualcuno disse in seguito che l’avvocato si era mostrato
parecchio contrariato per quella lettera.

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